Solitudine della teoria comunista
Nel testo che segue, cercheremo di comprendere la situazione di grave isolamento in cui versa la teoria comunista nella nostra epoca. È difficile, per i teorici, non vedere a qual punto il linguaggio che usano – che devono usare – risulti incomprensibile alla grande maggioranza dei proletari, anche quelli di buona volontà. Questo è vero indipendentemente dalle differenti opzioni teoriche. Tra i gruppi o gli individui che riflettono teoricamente sulla situazione attuale della società capitalistica, e sul suo superamento possibile, nessuno ha trovato il linguaggio e/o il punto di vista che gli permettano di uscire da un piccolo milieu ripiegato su se stesso. Questa situazione rimette in questione la teoria comunista nella sua specificità storica? Oppure la rimette semplicemente al suo posto?
1. La teoria comunista e la lotta di classe
Cominciamo col dire che cosa la teoria comunista non è. La teoria comunista non è il resoconto scientifico della congiuntura economica, degli imprevisti dell’accumulazione del capitale. Senza dubbio la critica dell’economia politica consente di vedere più chiaramente rispetto alla maggior parte degli economisti, di raggiungere un grado di conoscenza che, in rapporto a questi ultimi, va ben più in profondità, oltre le apparenze del mercato. Ma anche quando coglie il movimento dell’economia capitalistica come quello di una contraddizione, la critica dell’economia politica ha coperto solo una parte del campo all’interno del quale si definisce la teoria comunista. Non basta dimostrare che il capitalismo è mosso da una contraddizione, foss’anche mortale. Occorre mettere in rilievo dove si situa, all’interno di tale contraddizione, la possibilità del suo superamento. E occorre conferire alla contraddizione stessa un senso.
La teoria comunista non è nemmeno un’arma politica che permetta ai rivoluzionari di abbattere più facilmente il loro nemico, comunque essi lo definiscano (lo Stato, i capitalisti, il rapporto proletariato-capitale etc.). Possono i teorici, cogliendo più chiaramente degli altri il meccanismo della contraddizione sociale, guidare il proletariato, o dargli l’esempio, nel cammino che conduce dal capitalismo al comunismo? No. Vedremo più avanti perché.
«Nulla di ciò che è umano mi è estraneo», scriveva Marx riprendendo Terenzio. Mirando a una trasformazione totale della vita, la teoria della comunizzazione non lascia nulla fuori dal suo raggio d’azione. L’arte, lo sport, la scienza, l’educazione dei bambini etc.: tutto può essere oggetto di attacco e di critica, poiché essa considera tutte le attività umane come storicamente determinate. In particolare, nella società attuale, ogni attività è determinata dal suo rapporto con la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico (MPC), cioè a dire il rapporto di classe tra proletariato e capitale. Eppure, la teoria comunista non è una semplice filosofia che, come tale, abbia qualcosa da dire su tutto ciò che esiste. La teoria comunista si interessa a ciò che esiste, soltanto per mostrare la possibilità della sua soppressione e del suo superamento.
Né commentario, né guida politica, né filosofia generale: come definire allora la teoria comunista? Nel modo più semplice, possiamo dire che essa è teoria del superamento del capitalismo, teoria della rivoluzione. Ma cerchiamo di essere meno generici.
La teoria comunista dev’essere compresa in relazione al suo radicamento all’interno della lotta di classe, poiché è qui che si trova la possibilità del superamento. Ma ancora occorre sapere di cosa stiamo parlando. La teoria comunista non è un semplice commentario alle lotte che, ogni giorno, vedono affrontarsi il proletariato e il capitale per la ripartizione del valore che il proletariato crea ex novo con il proprio lavoro. Nient’altro che la lotta di classe determina, in ultima analisi, la ripartizione della giornata lavorativa. Questa lotta è consustanziale all’esistenza stessa delle classi; ma la sua esistenza non prova la possibilità di una rivoluzione comunista più di quanto la provino le alternanze, nella congiuntura economica, tra prosperità e rallentamento dell’accumulazione. La lotta quotidiana in cui proletari e capitalisti si affrontano, prova soltanto l’esistenza della contraddizione tra lavoro necessario e pluslavoro. Alcuni pensano che queste lotte quotidiane siano portatrici di un superamento possibile, nella misura in cui si estendono, si generalizzano, diventano un movimento di massa che permetta di sviluppare una politica rivoluzionaria. Ci sarebbe dunque trascrescenza delle lotte rivendicative quotidiane in rivoluzione proletaria. Altri, vedendo nella lotta di classe soltanto un conflitto quotidiano, la sistemano nel reparto degli accessori della riproduzione del MPC. Per costoro, il conflitto proletariato-capitale non è che una funzione del capitale, dove ciascuna classe presuppone l’altra, formando un sistema chiuso senza alcuna possibilità interna di rottura.
Ora, la rottura nella presupposizione reciproca delle classi esiste e si manifesta concretamente ogni volta che il proletariato si solleva in un’insurrezione. L’insurrezione interrompe il corso quotidiano della lotta di classe. Ciò può accadere dopo una serie di sconfitte rivendicative, come nel giugno 1848, oppure in ragione di un evento apparentemente estraneo alla lotta rivendicativa, come l’ammutinamento dei marinai di Kiel nel 1918. In siffatti momenti, il rapporto proletariato-capitale cambia. Il proletariato non cerca più di strappare al capitale un aumento di salario; non cerca di spostare a proprio vantaggio il cursore che divide la giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro. Qualunque cosa esprima, secondo le epoche e i paesi, l’insurrezione proletaria crea una socialità nuova, effimera e transitoria, che sfugge alla presupposizione reciproca delle classi in quanto si costruisce internamente al proletariato. Il rapporto sociale insurrezionale si costituisce quando gli insorti si impadroniscono, attraverso e in funzione della lotta, di frammenti di capitale che inizialmente si trovano di fronte a essi come proprietà dei capitalisti. Che essi occupino o incendino fabbriche, edifici pubblici o privati, strade, ponti etc., che si impossessino di veicoli, armi o mezzi di sussistenza, gli insorti trasformano il loro rapporto col capitale. Da presupposizione reciproca, il rapporto proletariato-capitale si fa puro scontro. E nella sua purezza, questo scontro implica la possibilità del superamento comunista, perché, per affrontare il capitale, gli insorti formano tra loro un rapporto sociale inter-individuale che non ha il lavoro come contenuto; un rapporto che ingloba la relazione con una natura esterna la quale non è, come nella presupposizione reciproca, semplice mezzo di produzione. Al contrario, gli elementi di capitale di cui il proletariato insorto si impossessa sono trasformati dall’insurrezione. Da mezzi di produzione diventano mezzi di lotta, e perfino di divertimento. L’esistenza stessa di questo rapporto sociale insurrezionale pone praticamente la questione del superamento del MPC.
È in questo rapporto insurrezionale che la teoria comunista trova le proprie radici: essa ne è la coscienza di sé. Fatto che, come vedremo, non va esente da problemi.
2. Coscienza immediata e coscienza astratta
Lungo tutta storia delle società di classe, è possibile distinguere tra una coscienza immediata e una coscienza astratta. La prima accompagna normalmente ogni attività umana. Nessuna attività, all’interno di nessuna classe sociale, può svolgersi senza un processo cosciente, che chiameremo dunque immediato. Che si tratti della più semplice operazione di lavoro, come dell’organizzazione complessa di un’azienda, il processo cosciente che l’accompagna è detto immediato, nel senso che è direttamente adeguato e legato all’attività in questione, senza andare oltre.
La coscienza astratta non si situa allo stesso livello. Essa è la coscienza di sé del rapporto sociale che struttura la società. Questo rapporto sociale definisce la soggettività umana, vale a dire il processo attraverso il quale l’uomo, relazionandosi a se stesso come proprio oggetto, si produce come storia, come divenire. Dalle origini fino ai giorni nostri, il processo di autoproduzione degli uomini è stato strutturato dal lavoro e dal suo sfruttamento, cioè dal rapporto contraddittorio tra le classi (o proto-classi). Possiamo quindi affermare che la coscienza astratta è la coscienza di sé del soggetto contraddittorio. Sotto forma di religione, filosofia o teoria comunista, la coscienza astratta rende conto della contraddizione sociale e ne progetta la risoluzione. Il peccato originale che fa scacciare Adamo ed Eva dal paradiso, con la promessa di ritornarvi dopo la morte (a certe condizioni!), è un esempio di questa preoccupazione del pensiero per la contraddizione sociale. In un modo o nell’altro, ogni società produce una coscienza astratta che spiega la natura contraddittoria della società stessa e ne progetta il superamento. Inoltre, il carattere contraddittorio della società fa sì che la sua riproduzione, la sua evoluzione, non risponda direttamente all’azione cosciente degli uomini, ma sia il risultato del gioco dello scontro tra le classi. Ad esempio, nella società feudale, tanto i signori quanto i servi si comportano conformemente alla loro situazione di classe; ciascuna classe vuole per sé la più larga parte possibile del plusprodotto. La contraddizione che questo fatto mette in movimento genera il capitalismo, che provoca la scomparsa di servi e signori – ciò che evidentemente non corrisponde alla loro intenzione iniziale. In altri termini, gli uomini sono sempre stati impotenti a fare evolvere la società secondo la propria volontà e la propria coscienza, immediata o astratta che sia. In generale, la coscienza astratta registra questa situazione di alienazione proiettando nel cielo il potere supremo sulla vita degli uomini.
2.1. Il caso particolare della teoria comunista
Nella società capitalistica, la borghesia è incapace di progettare un superamento della contraddizione sociale, se non rivestendo di abiti nuovi la religione e la filosofia dei secoli passati. Il capitalismo non genera nel suo seno una nuova classe proprietaria, capace di ergersi a rivale della borghesia e di esserle superiore grazie a un nuovo modo di sfruttare il lavoro, e che sviluppi su questa base una visione nuova del divenire e della contraddizione sociale. Laddove l’aristocrazia era tallonata dalla borghesia in ascesa, che finì per eliminarla, la borghesia vittoriosa si occupa essa stessa di migliorare costantemente il rendimento dello sfruttamento del lavoro. Fondamentalmente, la differenza risiede nel fatto che ora il lavoratore è completamente separato dai mezzi di produzione, che sono gestiti nella loro totalità dalla borghesia. È questa particolarità, unica nella storia delle società di classe, a far sì che non sia una (nuova) classe proprietaria ad essere portatrice della coscienza del superamento della contraddizione, ma la classe del lavoro, il proletariato. Tuttavia, non si tratta qui del proletariato delle lotte quotidiane, ma di quello delle insurrezioni, del proletariato che provoca una rottura nella presupposizione reciproca delle classi. La possibilità del superamento del MPC si forma all’interno di questo rapporto sociale, dove il proletariato si manifesta non come classe del lavoro, classe sfruttata e subordinata al capitale, ma come classe insorta.
È con l’insurrezione proletaria che la contraddizione tra le classi esplode apertamente e chiama al suo superamento pratico, poiché in questa esplosione la società nel suo insieme si blocca. Ed è il proletariato, non la borghesia, ad essere portatore del superamento, in quanto classe dei senza riserve, separata dalla totalità dei mezzi della propria esistenza che le stanno di fronte come capitale. Così come l’insurrezione consiste, per il proletariato, nel negare l’isolamento in cui si trova nel momento in cui la contraddizione capitale-lavoro esplode, allo stesso modo la coscienza di sé del rapporto sociale insurrezionale consiste nel definire la possibilità e la necessità di una società dove la separazione che definisce il proletariato sia abolita. La teoria comunista è la coscienza di sé del rapporto insurrezionale in quanto possibilità del passaggio dal capitalismo al comunismo. Con una precisazione: poiché tutti i tentativi rivoluzionari fino ad oggi sono falliti, occorre definire la teoria comunista, tale quale si è costituita sul filo delle generazioni, come il frutto della sconfitta di tutti i tentativi precedenti.
Abbiamo detto che l’insurrezione è un rapporto sociale specifico interno al proletariato; ma esso è un rapporto instabile ed effimero, sia in ragione della repressione capitalistica, sia per il fatto che, pressoché per definizione, l’insurrezione non lavora, e dunque non produce nulla. Su questa base, i proletari insorti non producono una coscienza astratta della loro azione. Non ne hanno il tempo. La coscienza immediata che essi sviluppano della loro attività insurrezionale, è certo molto differente rispetto a ciò che pensavano prima, quando vivevano dentro al ciclo metrò-lavoro-sonno. Senza arrivare ad affermare che le lotte sono teoriche, le insurrezioni pongono apertamente questioni come la legittimità della proprietà, la validità delle istituzioni esistenti, la necessità del lavoro o della famiglia. Tali questioni non vengono poste in forma libresca, ma praticamente, all’interno dell’attività insurrezionale e dei problemi che questa deve risolvere nella sua lotta contro il capitale.
Dopo la disfatta dell’insurrezione, dopo che l’apertura su tutti i possibili si dissolve nel ritorno alla routine del lavoro, la teoria comunista si dà come compito quello di comprendere le ragioni del fallimento. La teoria comunista si sviluppa, quasi per definizione, post festum, e dunque nella separazione rispetto al rapporto sociale che ne rappresenta la sorgente. Se la rivoluzione avesse trionfato, la teoria sarebbe scomparsa insieme alla separazione tra coscienza immediata e coscienza astratta, nella produzione di una forma di coscienza di sé riconciliata con l’immediatezza della vita sociale. Ma le rivoluzioni sono fallite, e la teoria comunista deve rendere conto di questi fallimenti. Essa deve, da un lato, spiegare che cos’è accaduto in funzione della situazione precedente all’insurrezione e, dall’altro, analizzare le opzioni scelte dagli insorti (che devono a loro volta essere spiegate attraverso il contesto storico); infine, deve tenere conto degli obiettivi che questi ultimi, implicitamente o esplicitamente, si sono dati. La teoria comunista si muove in maniera iterativa fra questi tre momenti: analisi del movimento della società capitalistica e della sua contraddizione fondamentale (critica dell’economia politica, teoria del valore, teoria delle crisi), studio critico dei tentativi rivoluzionari passati (teoria della rivoluzione) e definizione del fine comunista che conferisce senso ai due momenti precedenti (proiezione dell’abolizione del capitalismo). È in questo modo che la teoria comunista procede – a partire dall’ultima fase rivoluzionaria fallita – e che cerca nelle condizioni che hanno presieduto alla crisi e all’insurrezione, la spiegazione dell’azione degli insorti. Essa analizza criticamente le opzioni che essi hanno scelto e pone nuovamente il problema, in vista della prossima occasione. Ancora, occorre dimostrare che ce ne sarà una (critica dell’economia politica, teoria delle crisi) e definire, in maniera critica e in relazione ai tentativi precedenti, tanto il fine comunista che il metodo – politico o meno, organizzativo o meno – per raggiungerlo.
Forte delle sue analisi e delle sue critiche, la teoria ha creduto a lungo di poter conoscere le condizioni di successo della rivoluzione in occasione di una nuova sollevazione proletaria. E si è preparata ad intervenirvi attribuendosi – implicitamente o esplicitamente – un ruolo di guida, e scrivendo per il proletariato il programma (politico, economico) della rivoluzione a venire. Dubitiamo che essa abbia mai assunto questo ruolo senza perdere la sua natura rivoluzionaria. Nel momento in cui si è ingaggiata nella pratica, la teoria è diventata un’ideologia politica modulabile in base alle circostanze. Per far vivere il suo programma nel proletariato (non insorto), si è adeguata alle condizioni esistenti. Essa ha voluto parlare il linguaggio della coscienza immediata, tanto più che progettava un comunismo fabbrichista, implicante la maggior parte delle categorie del capitale. Inoltre, le sue anticipazioni si sono puntualmente rivelate inadeguate, nella misura in cui la teoria comunista di ogni epoca riposa fondamentalmente su problematiche diventate caduche – quelle dell’insurrezione precedente. Questo problema si presenta in modo particolarmente acuto nella fase attuale.
2.2. L’allontanamento nel tempo dell’ultima fase «rivoluzionaria»
Nella sua forma attuale, la teoria comunista affonda le proprie radici nella fase di crisi degli anni 1960-‘70. Questo periodo è in effetti l’ultimo ad aver conosciuto una serie di sommovimenti proletari, tali da fare apparire una nuova forma della soggettività rivoluzionaria del proletariato. Questa fase di lotte intense non ha tuttavia mai attinto allo stadio insurrezionale, malgrado molte illusioni siano ancora vive, ad esempio riguardo al Maggio ‘68 in Francia. Inoltre, questo periodo è ormai così lontano nel tempo da essere diventato, per le generazioni più giovani, nient’altro che «storia». Attualmente, la teoria comunista soffre dunque di un doppio handicap: l’allontanarsi nel tempo dell’ultima fase di crisi e la sua debole intensità. Finita quell’epoca, l’idea che il proletariato sia una forza capace di trasformare il mondo, è stata riattivata a più riprese da movimenti di protesta relativamente potenti, ma che sono rimasti – ancor più che negli anni intorno al 1968 – al di qua della soglia della rottura insurrezionale. Queste spinte limitate (1995 e 2005 in Francia, 2011-’12 nell’area mediterranea etc.) hanno avuto un effetto paradossale sulla teoria comunista. Da un lato, esse hanno suscitato in una nuova generazione di giovani proletari, il bisogno di una riflessione teorica. Dall’altro, questa riflessione è consistita soprattutto nel riappropriarsi delle formulazioni anteriori della teoria, talvolta riorientandole per farle aderire alla realtà delle lotte quotidiane, in particolare quelle che si sviluppano fuori dal rapporto immediato tra lavoro e capitale – poiché l’allontanamento temporale dalle condizioni insurrezionali porta sempre con sé la ricerca di una nuova soggettività rivoluzionaria (ad esempio, all’interno del rapporto uomo-donna). Allo stesso modo, nel riflusso seguito al ‘68, si volle vedere nella critica della vita quotidiana, una nuova forma sociale rivoluzionaria. In ogni caso, negli anni più recenti, nessun impulso del movimento reale ha rimesso in causa il paradigma teorico uscito dalla fase post-sessantottesca, che designiamo col termine «comunizzazione». Abolizione immediata delle classi attraverso l’auto-negazione del proletariato, assenza di qualsivoglia periodo di transizione, superamento dell’economia e del lavoro: sono questi alcuni dei concetti-chiave di questo paradigma. Da dove vengono? Non possiamo rispondere qui, se non in forma molto sintetica.
Nel corso degli anni ‘60, il modello fordista di sfruttamento del lavoro è venuto a scontrarsi con i limiti impostigli da un lavoro vivo che reagiva all’accelerazione delle cadenze e alla degradazione delle condizioni di lavoro. Per molti anni, l’aumento della produttività era stato garantito dall’accelerazione della catena di montaggio e da misure frammentarie di automatizzazione – una maniera poco onerosa di migliorare la redditività del capitale. La rivolta dell’operaio-massa ne ha segnato la fine. È ciò che definiamo anti-lavoro. Ed è da questa rivolta, certamente intrecciata ad altri movimenti di tipo più tradizionale, che è nato il paradigma teorico in questione, caratterizzato dal rifiuto dell’affermazione del lavoro nel comunismo, dall’asserzione che la rivoluzione è l’abolizione simultanea di entrambe le classi, dal rigetto di ogni idea di pianificazione della produzione comunista, dal rifiuto di qualsivoglia fase di transizione tra capitalismo e comunismo (esso stesso definito come non-economia).
Che tali formulazioni teoriche, talune molto astratte e audaci, siano il risultato della spinta limitata dei proletari in quegli anni, può apparire un’esagerazione. Ad esempio: affermare che il comunismo conoscerà la produzione, ma non la produttività né il lavoro; o ancora, asserire che la rivoluzione inizierà direttamente con la produzione del comunismo, e non con quella delle sue condizioni politiche – e tutto ciò perché talvolta i lavoratori si sono rifiutati di riprendere il lavoro, oppure hanno preferito danneggiare i mezzi di produzione piuttosto che negoziare su salari e condizioni di lavoro – non è un po’ eccessivo?
Non lo è. Perché è proprio questo che, da un punto di vista di classe, conferisce un senso a tutta l’evoluzione del MPC nel corso degli ultimi cinquant’anni. Dopo le rivolte degli anni intorno al ‘68, per rompere la resistenza dei proletari, i capitalisti hanno dovuto allo stesso tempo delocalizzare e automatizzare massicciamente. Lo sviluppo folgorante delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, a partire dagli anni ‘80-‘90, ha rafforzato questo movimento di cui conosciamo il risultato globale: disoccupazione di massa; smantellamento del fordismo tradizionale nei paesi centrali, ma sua riproduzione in alcuni paesi periferici, in particolare quelli «emergenti»; smantellamento del compromesso fordista, e dunque attacco alla contrattazione collettiva e ai sistemi di protezione sociale; e, ovunque, precarizzazione della forza-lavoro. E tutto questo, nel quadro di una tensione produttivistica estrema, in ragione della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il post-fordismo non ha abolito le condizioni dell’anti-lavoro, le ha anzi aggravate. Ma per il momento, la pressione della disoccupazione mantiene un coperchio su questa bomba a orologeria.
Questa breve retrospettiva degli ultimi cinquant’anni, è soltanto un’altra maniera per dire che il proletariato ha subito una grave sconfitta. Sebbene non abbia combattuto, negli anni intorno al ‘68, fino a rimettere in causa il capitalismo, esso ha contestato il fordismo in misura sufficiente a innescare una contro-rivoluzione i cui effetti non si sono ancora completamente dispiegati. «Sconfitta» non significa che le lotte del proletariato siano cessate. Da un lato, nei paesi centrali, hanno avuto e hanno tuttora luogo numerose lotte difensive contro lo smantellamento del compromesso fordista, contro le chiusure d’impresa, e perfino per ottenere aumenti salariali. Ci sono state anche lotte più radicali e massive, rispetto a quello che è il corso quotidiano della lotta di classe. Si pensi alla Grecia del dicembre 2008, o alle rivolte che si moltiplicano un po’ ovunque nel mondo per le più svariate ragioni (prezzo del pane o dei trasporti, corruzione dei governanti, elezioni truccate etc.). D’altro canto, è venuta a formarsi, nei paesi emergenti e sottosviluppati, un’enorme classe proletaria, la cui combattività prende di mira tutti gli aspetti dello sfruttamento: salari diretti e indiretti, condizioni di lavoro e di alloggio, costo della vita etc. In questo proletariato periferico, bisogna includere anche la vasta popolazione delle bidonville, che sono escluse soltanto in apparenza dal rapporto proletariato-capitale. Difensive od offensive, vittoriose o sconfitte, tutte queste lotte restano comunque al di qua del punto di rottura oltre il quale la presupposizione reciproca delle classi risulta sospesa, e diventa perciò possibile (ciò che non significa ineluttabile) la produzione del comunismo.
2.3. Quale rapporto con le lotte attuali?
Per i teorici della comunizzazione, la questione non è se sostenere o avversare questo tipo di lotte. Queste lotte esistono, non sono altro che la meccanica stessa attraverso la quale si riproduce la contraddizione fra lavoro necessario e pluslavoro. Non ci sono, da un lato, le contraddizioni «economiche» del capitale e, dall’altro, dei proletari che ne approfitterebbero per avanzare le loro rivendicazioni. La riproduzione del rapporto sociale capitalistico esiste in un solo ed unico momento, quello della lotta di classe per la ripartizione della giornata lavorativa. Queste lotte non rimettono in questione la presupposizione reciproca delle classi. I comunisti, all’occorrenza, vi partecipano: benché sappiano con certezza che rivendicare un aumento salariale non equivale alla rivoluzione, né è un modo di prepararla, non per questo vi rinunciano. Ma per essi, non si tratta di coltivare l’illusione di poter spingere dall’esterno le lotte quotidiane, fino al punto in cui i capitalisti rinuncerebbero a negoziare, lasciando infine trasparire la loro autentica natura repressiva e reazionaria, e provocando così il sollevamento del proletariato, verso la rivoluzione.
Tuttavia, nelle condizioni attuali, il corso quotidiano della lotta di classe lascia apparire alcuni momenti più intensi, che sono per i comunisti il sintomo della possibilità di una rottura più profonda, e ai quali essi rivolgono la massima attenzione. Quando gli operai sottomessi alle condizioni del fordismo cinese, fanno rivivere i comportamenti selvaggi e incontrollati degli operai italiani del 1969, i teorici della comunizzazione vedono in ciò qualcosa di più che un metodo un po’ violento per rivendicare degli aumenti salariali. Essi ritengono che il fordismo in salsa cinese stia raggiungendo gli stessi limiti contro i quali il fordismo si scontrò nei paesi centrali negli anni ‘70, e si interrogano su questo sviluppo dell’anti-lavoro, sul suo significato e il suo potenziale in rapporto a una rottura che non mancherà di verificarsi, in Cina come altrove.
Pur avendo piena consapevolezza dei limiti della combattività del proletariato nell’epoca attuale, la teoria comunista afferma che la fase è gravida di un’importante crisi e di una sollevazione massiva e profonda (ma a quale termine?). Ciò risulta dall’analisi della crisi dell’accumulazione del capitale (che non è possibile sviluppare qui) e dalle indicazioni provenienti dalle lotte parziali che caratterizzano il periodo, e che mostrano come la vecchia talpa stia scavando nella stessa direzione degli anni intorno al ‘68: quella dell’anti-lavoro. Il ruolo della teoria non è quello di commentare il corso quotidiano della lotta di classe, ma quello di svelare in essa le punte avanzate, che danno un senso al caos della depressione di lunga durata nella quale ci troviamo immersi. In quest’ottica, non tutte le lotte del proletariato sono significative. Se la teoria comunista è in grado di farne una selezione e dissipare alcune illusioni, avrà già fatto molto.
3. Problemi di un’espressione comunista oggi
Nella fase attuale, dunque, la teoria della comunizzazione è necessariamente isolata. Il proletariato mondiale, malgrado qualche momento di lotta più intenso, non provoca alcuna rottura nella presupposizione reciproca delle classi. Esso lotta all’interno del sistema – ed è la ragione per cui alcuni hanno rinunciato alla lotta di classe del proletariato come spiegazione del movimento generale del MPC, e al proletariato stesso come soggetto della rivoluzione. Date queste condizioni, che fare? Che dire?
I teorici della comunizzazione non credono si debba – né si possa – cambiare la coscienza delle persone perché il loro agire cambi. Non è la coscienza a dettare ciò che i proletari fanno o non fanno, dicono o non dicono, bensì le condizioni materiali della loro esistenza. Nessuna opera di propaganda può cambiare questa determinazione fondamentale. Si può andare ai cancelli di una fabbrica in sciopero e distribuire volantini in cui si dice che gli aumenti salariali richiesti saranno presto erosi dall’incremento dei ritmi e dei prezzi, e che dunque l’unica soluzione è la rivoluzione. Ma nessuno capirebbe. Fintanto che le condizioni materiali sono quelle della riproduzione capitalistica, le lotte proletarie ruoteranno intorno alla contrattazione sulla compravendita della forza-lavoro. È inutile intervenire dall’esterno nelle molteplici lotte quotidiane che inevitabilmente si sviluppano, e proporre a chi le conduce un discorso massimalista contro il capitalismo in generale, quando la lotta in questione cerca soltanto di far cedere un padrone particolare. E questo, a maggior ragione, laddove il proposito che la teoria ha nei riguardi del capitalismo in generale, è anche, simultaneamente, quello dell’auto-negazione del proletariato. Difficile immaginare come un tale proposito possa avere senso per dei proletari che cercano di vendere alle migliori condizioni la propria forza-lavoro a un capitalista.
È forse più utile alla causa del comunismo dedicarsi alla memorialistica, al fine di dimostrare ai proletari di oggi che sono gli eredi di lotte celebri, la cui memoria dovrebbero conservare per mettere a profitto le lezioni – positive o negative – che se ne possono trarre? In assenza di una rottura profonda della contraddizione capitalistica, occorre ricordare ai proletari che simili rotture si sono già verificate, per spingerli a rompere a loro volta la presupposizione reciproca delle classi?
La risposta, qui, è duplice. Da una parte, per le ragioni che abbiamo visto, non è possibile spingere il proletariato a radicalizzarsi. Anche qualora qualche militante riuscisse a far cambiare opinione a un certo numero di proletari, a convincerli che il proletariato è una forza storica rivoluzionaria, e che può o deve tornare ad esserlo, avremmo solo qualche militante in più. La loro «nuova» coscienza, tuttavia, nulla potrebbe contro il rullo compressore della routine capitalistica.
D’altra parte, se si considera il proletariato mondiale nella sua immensità, la memoria delle lotte non è questione di opuscoli o di film – attraverso i quali la versione proletaria della storia di classe verrebbe diffusa tra gli sfruttati, affinché conoscano il proprio passato e per demistificarne le versioni borghesi. Queste conoscenze storiche, o si sono integrate, in una forma più o meno esatta – diciamo «culturale» – nella coscienza immediata del proletariato, oppure non possono essere utili che all’interno di un quadro teorico. Ma, in termini generali, il proletariato non ha bisogno di conoscenze libresche per sapere a che punto si trova della propria storia. La memoria del suo passato esiste materialmente nelle condizioni concrete con le quali è costretto a confrontarsi. Le condizioni alle quali il capitale sottomette il proletariato oggi, sono il risultato delle lotte di ieri. Il proletariato non ha bisogno di conoscere le sue lotte passate – siano esse vittoriose o meno – per condursi nelle lotte presenti, poiché le lezioni del passato sono là, davanti a esso, oggettivate nelle nuove condizioni risultanti dalle lotte del passato. Ad esempio: la rivolta dell’operaio-massa ha determinato, nei paesi centrali, un’importante evoluzione del fordismo. Ciò che viene chiamato «post-fordismo», non è che una nuova maniera di controllare in modo pervasivo ogni gesto e ogni momento del lavoro. Le tecnologie dell’informazione giocano qui un ruolo fondamentale, e sono esse, ben più che la catena di montaggio, a rappresentare il punto debole, il nodo che dev’essere attaccato. Conoscere le gesta eroiche degli operai sabotatori della catena di montaggio del tempo che fu, non fa avanzare i proletari di un solo passo verso l’adozione di nuovi metodi di lotta da opporre all’informatizzazione delle loro vite.
Risulta quindi evidente come nelle condizioni attuali, nel quadro di una prospettiva comunizzatrice, non sia questione, per la teoria, di cercare di ampliare la coscienza immediata del proletariato in rapporto alle sue lotte quotidiane, attraverso l’addizione di frammenti di teoria, di storia o di memoria. Abbiamo già visto come questo tipo di pratica sia stato possibile, per la teoria comunista nella sua forma programmatica, solo al prezzo di una diluizione dei suoi principi nelle acque della politica e dell’economia. La prospettiva programmatica cercava il proprio fondamento nell’affermazione del proletariato e del lavoro nelle lotte quotidiane, e perveniva a una concezione del comunismo limitata, anche in relazione alla fase successiva al periodo di transizione. Oggi, un simile percorso non può essere intrapreso senza farsi grandi illusioni su ciò che è diventato il rapporto proletariato-capitale, così come sull’enorme distanza che separa la coscienza immediata delle lotte quotidiane e le astrazioni necessarie alla teoria della comunizzazione.
Ma allora, ci si domanderà, perché mantenere un’attività teorica in un periodo come quello attuale? Per essere pronti a prendere la direzione della sollevazione quando verrà il momento? No. In nome della sua comprensione teorica della contraddizione sociale, il programmatismo ha spesso avuto la pretesa di dirigere, o quanto meno di guidare e consigliare, i proletari insorti. Ciò ha comportato la perdita del suo punto di vista iniziale sulla rivoluzione e il comunismo. Questo fatto dovrebbe suggerire ai teorici una maggiore modestia. I teorici devono ammettere di non servire a granché, e che la teoria comunista è una forma di coscienza che si trova in uno stato di separazione estrema rispetto a ciò di cui parla. Oggi più che mai. Infatti, la rivoluzione che le forme più avanzate dell’ultima fase di «semi-crisi» annunciano, sarà di una tale profondità da escludere qualsivoglia forma di dirigismo e di intervento esterno. L’auto-negazione del proletariato non obbedisce a delle parole d’ordine, ma si realizza come sovvertimento totale dell’esistente, reinvenzione della vita. È qualcosa di completamente differente rispetto al modo in cui il programma proletario considerava la rivoluzione. Quest’ultimo progettava il comunismo come l’affermazione del proletariato attraverso le sue organizzazioni e istituzioni, poste sotto la tutela di uno Stato – certo «operaio», ma comunque Stato. Il programma proletario sfociava così in un comunismo visto come un’estrapolazione del movimento operaio reale.
Ora, l’auto-negazione del proletariato è un movimento che coinvolgerà ogni proletario individualmente. La rivoluzione del programma proletario era concepita come una rivoluzione condotta da organizzazioni rappresentative che, grazie all’appoggio delle masse, sarebbero giunte alla conquista del potere. Nella comunizzazione non esiste delega dell’individuo a un’istanza che lo rappresenta; la forma inter-individuale dell’insurrezione si sviluppa e si approfondisce mano a mano che procede verso il successo. A ciò si accompagnerà una trasformazione sempre più marcata della coscienza immediata dei proletari, contestualmente alla trasformazione della loro attività. In particolare, la coscienza immediata dell’attività di crisi diventerà sempre più vera. Con ciò intendiamo dire che il rapporto sociale insurrezionale, e il rapporto sociale capitalistico che gli insorti cercano di distruggere, saranno sempre più compresi per ciò che sono, anziché per ciò che sembrano essere. I proletari non accederanno alle verità della coscienza teorica attraverso il linguaggio della teoria, né proveranno il desiderio di farlo. Ma la loro attività svilupperà una coscienza immediata conforme alla lotta, conforme alla presa di possesso di elementi del capitale (che rimette in questione la costrizione al lavoro, risultante dal monopolio dei capitalisti sui mezzi di vita) e alla natura inter-individuale del rapporto sociale insurrezionale (che rimette in causa l’individuo contingente, demassificandolo). In termini generali, l’attività di crisi disvelerà il feticismo del capitale, che la coscienza immediata attuale esprime così spontaneamente. Essa «saprà», in virtù del suo contenuto, e non già grazie alla teoria, che il modo di produzione capitalistico non ha nulla di naturale, che lo scambio della forza-lavoro non è un’eterna fatalità, che si può produrre senza lavorare, che la merce, lo scambio, il valore non sono le forme necessarie in eterno alla sopravvivenza della specie, e che le separazioni di cui la nostra vita è fatta sono un fattore dello sfruttamento dei proletari. Tutte le insurrezioni della storia del MPC hanno modificato, seppur provvisoriamente, la coscienza immediata del proletariato nel senso di questa radicalizzazione. Ma l’insurrezione che sfocerà nel primo tentativo di comunizzazione della storia, non potrà che andare oltre il «già visto».
Non possiamo sapere quale sarà il vocabolario di questa nuova coscienza, salvo che non sarà un vocabolario astratto. La teoria ha prodotto i concetti propri del suo linguaggio a partire dall’attività concreta degli insorti; ma non è con la diffusione all’interno della classe delle astrazioni della teoria, che la coscienza immediata del proletariato insorto si trasformerà. Far uscire il vocabolario dall’astrazione, non significa diffondere tra le «masse» concetti che tutti possano comprendere: vuol dire abolire praticamente le istituzioni, le forme, i rapporti etc., che questo linguaggio astratto designa nel pensiero teorico, e simultaneamente creare un vocabolario differente, che sia adeguato alle nuove modalità della vita sociale. I proletari negheranno se stessi facendo uso della parola «comunismo»? Alla scala infima della loro presenza all’interno del proletariato mondiale, i teorici parteciperanno a questa trasformazione rinunciando infine al proprio gergo. L’attività di crisi li agevolerà in questo. La loro chiaroveggenza teorica, ammesso che esista, avrà necessariamente un’efficacia limitata, ben più che nelle rivoluzioni del passato; poiché non vi sarà un movimento di massa da guidare o consigliare: non vi saranno «masse». Nel movimento verso l’individuo particolare, i concetti astratti generali perderanno in utilità. L’evoluzione della coscienza immediata dei proletari nel senso di una coscienza più vera, coinciderà con l’approfondirsi dell’attività di crisi, coi successi riportati nello scontro col capitale. In quanto tale, questa evoluzione fa parte delle condizioni della comunizzazione, poiché quest’ultima si realizzerà come azione cosciente e vera, nel senso che il risultato di un’azione intrapresa nel corso della lotta, sarà conforme al progetto determinato inizialmente. È questa la differenza rispetto alla falsa coscienza, che crede che il lavoro abbia per scopo la produzione di oggetti utili, mentre esso non viene erogato che per creare nuovo valore.
Se la comunizzazione deve aver luogo, essa si realizzerà dunque a discapito della teoria, superando la separazione tra coscienza immediata e coscienza teorica. Nello stesso movimento col quale il processo di comunizzazione si dispiega, l’abolizione di tutte le separazioni riconcilierà pensiero e azione, sopprimerà la distanza tra la coscienza dell’azione qui ed ora, e quella della sua portata generale nel tempo e nello spazio. Gli insorti coglieranno in modo sempre più chiaro il significato generale e la posta in gioco delle loro lotte pratiche, nella misura in cui aboliranno ogni potere e ogni economia. All’interno di questo processo, la teoria comunista scomparirà in ragione dell’inutilità delle astrazioni che la costituiscono.
Se la teoria comprende dunque di essere incapace di spingere le lotte verso la comunizzazione, e di essere destinata – nella migliore delle ipotesi – a scomparire, perché si sforza di continuare a esistere? Perché, per quanto irrilevante ciò possa essere, ci sono individui che non possono impedirsi di riflettere sulle condizioni del superamento del MPC. Come abbiamo già accennato, essi sono il prodotto delle fasi di lotta – anche non insurrezionale – che il proletariato ha conosciuto nell’epoca più recente. Essi costituiscono il piccolo «milieu» cosiddetto radicale. La loro influenza sul movimento reale è nulla. Possiamo ben immaginare che la comunizzazione si realizzi senza nulla sapere della teoria che si elabora da generazioni. Ma i teorici esistono, noi esistiamo (almeno un po’). Quindi, a cosa possiamo servire? Nella fase attuale, ad ogni modo, mi sembra che si tratti soprattutto di dissipare alcune illusioni, favorite dall’allontanamento, di cui dicevamo, tra la teoria e il suo ancoraggio storico. Penso che questo passi per la difesa di alcuni princìpi fondamentali, contro tutto e tutti, e soprattutto contro le apparenze, il realismo, il pragmatismo. In particolare, questi princìpi sono:
– La lotta di classe come solo fattore esplicativo della storia. L’unicità della contraddizione di classe impone che i numerosi e differenti conflitti che minano la società capitalistica, siano analizzati nella loro relazione fondamentale con lo sfruttamento del lavoro. Questo include questioni come il genere, le razza, ma anche i problemi relativi alle minoranze nazionali o etniche. L’illusione è qui che esisterebbe un soggetto della rivoluzione diverso dal proletariato considerato nella sua contraddizione con il capitale.
– L’esistenza di due differenti livelli della lotta di classe: corso quotidiano e insurrezione. L’importanza di questo punto è particolarmente evidente in rapporto all’attivismo militante nei confronti delle lotte quotidiane. Esso permette altresì di riconoscere il potenziale controrivoluzionario del proletariato: non basta che vi siano dei proletari impegnati in una lotta, perché ciò segni l’inizio di una rivoluzione. L’illusione, qui, è che vi sia trascrescenza, attraverso l’accumulazione di esperienze, tra lotte quotidiane e processo rivoluzionario. Quest’ultimo si distingue necessariamente per una rottura profonda rispetto al corso quotidiano della lotta di classe.
– Il riconoscimento dell’isolamento della teoria, il cui scopo non è di intervenire nel corso quotidiano della lotta di classe (né di prepararsi a farlo al momento dell’insurrezione). L’illusione, qui, è che sopravvivano i margini per una qualche forma di politica proletaria.
– L’affermazione che si debba tendere a una definizione della società comunista e che, per farlo, occorra far ricorso all’astrazione e a una certa dose di utopia. Questo punto è importante in quanto fornisce un «benchmark» per valutare la realtà capitalistica ponendola a confronto con il comunismo. Ad esempio, cercare di definire ciò che potrebbe essere l’integrazione del piacere dei sensi nell’attività produttiva, aiuta a criticare le pretese dell’arte di oggi e a pensarne il superamento. Si può indubbiamente applicare lo stesso metodo alla famiglia, allo sport, al territorio, alla scienza etc. L’illusione, qui, è che in questo mondo ci sia qualcosa da salvare.
È in particolare su tali basi, che il nostro punto di vista può fare apparire tutte le istituzioni, attività, forme sociali etc., come storicamente transitorie. Questa critica generalizzata include certamente la critica dell’economia politica, e dunque lo studio critico di Marx & Co. Ma essa si estende anche a tutte le forme della controrivoluzione che vengono messe in atto: Kurdistan, Palestina, Occupy etc. (ammesso che, in assenza di rivoluzione, si possa chiamare tutto ciò «controrivoluzione»). E ingloba infine la critica della cultura, questo supplemento d’anima col quale borghesi e proletari adornano la brutalità dei loro atti e la rozzezza del loro pensiero. Certo, la difesa teorica di qualche principio non cambierà nulla nel movimento reale del rapporto di classe. Come potrebbe essa, ad esempio, modificare il movimento del capitale verso la guerra e quello del proletariato verso le rivendicazioni identitarie? D’altra parte, essa è il nostro modo di affermare che il modo di produzione capitalistico è una contraddizione in processo, e che questa contraddizione implica una possibilità di superamento. In conclusione, la teoria comunista avrà provato la validità del suo punto di vista, quando il suo gergo e le sue astrazioni saranno diventati inutili alla comprensione di un mondo riconciliato con se stesso.
Bruno Astarian
[ hicsalta-communisation.com, settembre 2016 ]